Oltre la moda: il fenomeno “maranza” e il disagio giovanile dietro l’apparenza

Non è solo moda. Né solo una buffa sottocultura da TikTok. Il “maranza” — quel ragazzo col giubbotto Moncler tarocco, gli occhiali da sole a specchio, il vocabolario a metà tra lo slang milanese e il rap di periferia — è un segnale. Anzi, un sintomo.

Dietro la maschera sgargiante si nasconde una generazione che fatica a trovare spazio, senso, ascolto. Che si veste in modo provocatorio perché nessuno la guarda davvero, che urla parole nuove perché con quelle vecchie non ottiene risposte.

Quando l’identità è una performance

Il maranza non nasce in una boutique né sui banchi di scuola. Nasce dove l’ascensore sociale è rotto, dove la scuola sembra una lingua straniera e le opportunità sono cose che vedi solo online. È figlio di una realtà in cui contano i simboli, perché i contenuti li hai visti negati fin da piccolo.

In un mondo che misura il valore personale in base a quanto appari, il maranza sceglie di esistere attraverso l’esagerazione. Fa della marca un’armatura. Del gruppo, una tribù. Del disinteresse, una forma di autodifesa.

E intanto cresce con l’idea — tragicamente errata, ma comprensibile — che valere significhi far rumore.

Il problema non è lo stile maranza. È il silenzio che lo circonda

Chi liquida tutto come una moda o una devianza, sbaglia bersaglio. Il fenomeno maranza, con tutti i suoi eccessi, è una domanda aperta. Che parla di scuole che non riescono a trattenere, di famiglie che non ce la fanno a contenere, di istituzioni che parlano un’altra lingua.

E soprattutto, parla di adulti che guardano — e giudicano — da lontano, senza provare ad ascoltare davvero. Ma se un ragazzo ti comunica qualcosa attraverso i vestiti, il linguaggio o le pose su Instagram, forse è perché nessuno gli ha mai chiesto chi è davvero.

Da dove si riparte?

Non con repressioni simboliche. Non con articoli scandalistici che puntano il dito. Ma nemmeno con un finto buonismo che romanticizza l’esclusione.

Serve costruire contesti reali dove questi ragazzi possano essere, non solo apparire. Serve una scuola che non punisca il disagio ma lo legga. Serve un’educazione culturale che mostri alternative senza deridere ciò che non capisce. Serve smettere di usare parole come “moda” o “fenomeno” quando si parla di vite vere.

Perché se continuiamo a ignorare il perché di quei vestiti, di quel tono, di quel bisogno di mostrarsi… non ci accorgeremo quando sarà troppo tardi per guardarli in faccia davvero.

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